Friday 30 November 2007

Manfredo Tafuri - La sfera e il labirinto

Libro in bibliografia base del corso di laurea in Architettura per la città, in realtà messo in bibliografia praticamente da tutti i corsi IUAV. La domanda che sorge spontanea è perché?

Non posso esimermi dal pensare che si debba trattare di uno strisciante complesso di inferiorità nei confronti del mito-Tafuri, in quanto non credo proprio che tutti coloro che lo hanno inserito nelle proprie bibliografie abbiano effettivamente letto queste 370 pagine comprendendole. Anche perché non so proprio cosa ci sia di rilevante in un libro che assegna ai singoli capitoli-saggi di cui è composto (anche qui, operazione oltremodo discutibile) titoli rigorosamente non pertinenti all'argomento trattato. Dal titolo del volume avevo sempre dedotto che questo dovesse essere uno scritto sulla forma, mentre mi sono scontrato con un incoerente collage di scritti a tema vagamente architettonico piuttosto che vagamente urbanistico, ma che in realtà trattano tutt'altro, tutto e niente al tempo stesso, e che spaziano impunemente da Piranesi alle avanguardie, alle utopie socialiste dell'unione sovietica e della repubblica di Weimar, all'opera di Stirling e di Aldo Rossi, a suggestioni minimaliste riuscendo al contempo a non parlarne affatto (il sottotitolo Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni'70 è purtroppo estremamente semplificatore).

I capitali difetti di Tafuri sono la complessità e il citazionismo: ogni singola parola è continuo rimando ad altro, opere ed articoli specialistici di ambiti criminalmente vari che vengono dati per scontati ed allegramente amalgamati in periodi criptici. Per quanto indice di una cultura immensa, tale modo di esprimersi risulta farraginoso, di difficile lettura e faticosa comprensione, e soprattutto non permette nemmeno al lettore medio-elevato di districare nella selva di rimandi il fil-rouge che dovrebbe correre all'interno dei singoli capitoli e tra di essi (anche se devo ammettere che se ne intuisce, lontana, la presenza).
La sfera e il labirinto è un libro ermetico per le azzardatissime e costantemente sottintese sintesi che propone, e proprio per questo non è in grado di svolgere una vera e propria funzione didattica; tuttalpiù può essere per Tafuri un modo di comunicare la propria posizione ad un uditorio almeno altrettanto erudito, ma sicuramente fallisce completamente nel ruolo di trasmettitore del sapere (teoretico piuttosto che pratico), ed ancor più in quello di veicolo di emozioni.

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Contenuti (apparentemente adamantini!!!):
  1. "L'architetto scellerato": G.B. Piranesi, l'eterotopia ed il viaggio
  2. Storicità dell'avanguardia: Piranesi e Ejzenštein (con in appedice il saggio di Ejzenštein Piranesi o la fluidità delle forme)
  3. La scena come "città virtuale". Da Fuchs al Totaltheater (con in appendice Le sovrascarpe della felicità, sceneggiatura di Bruno Taut)
  4. Urss-Berlino 1922: dal populismo al'"internazionale costruttivista"
  5. Verso la "città socialista" (Urss 1917-28)
  6. The New Babylon: i "giganti gialli" e il mito dell'americanismo (in appendice: Una città sotto un unico tetto, di Raymond M. Hood)
  7. Sozialpolitik e città nella Germania di Weimar (appendice: La socializzazione dell'attività edilizia, di Martin Wagner)
  8. "L'architecture dans le boudoir"
  9. Le ceneri di Jefferson

Thursday 29 November 2007

Shortbus

Avevo letto tutto e il contrario di tutto su questo film - lodi parnassiche e stroncature olimpiche; è anche vero che mi era stato suggerito, tempo addietro, da James, che è un uomo di gusto. Così ho colto al balzo l'occasione dell'inopinata visita al Boldrù ieri sera, dove avevo notato il titolo nel programma del cineforum (esperienza a posteriori completamente differente, ed assai più piacevole della bolgia dantesca che mi aveva accolto il giorno della prima fortuita visita).

Ciò su cui tutte le critiche erano d'accordo era il fatto che si trattasse di un film con scene erotiche estremamente esplicite; ciò nonostante sono rimasto piuttosto interdetto al vedere le sequenze iniziali (decisamente di cattivo gusto dopo la meravigliosa animazione di New York che apre il film), e per una buona decina di minuti ho temuto che si trattasse di un The Dreamers in versione possibilmente ancora più elegiaca (nel senso deteriore del termine) di quanto prodotto da Bertolucci qualche anno fa. Tuttavia il regista John Cameron Mitchell dopo l'impasse iniziale riesce ad elevare il tono, stemperando quello che poteva essere una fiera delle varianti (e perversioni) sessuali con tanta dolcezza ed amore per la vita. L'aspetto erotico non diventa che la componente privilegiata di una ricerca che ogni personaggio conduce, individualmente ed in compagnia, su cosa significhi volere bene, amare ed essere amati, e quale sia il proprio posto al mondo; e pazienza se tutto ciò è descritto da relazioni omo ed eterosessuali in modo pornografico (in senso letterale, etimologico): non si scade mai nel morboso. Shortbus, il club che dà il titolo al film, è un luogo accogliente, pieno di calore umano più che animale, dove c'è posto per gli spettacoli burlesque, il sesso, ma soprattutto la nostalgia, l'amicizia, la tenerezza, la voglia di aiutarsi reciprocamente, e di scoprire sé stessi e gli altri.

In altre parole, le scene di sesso sono decisamente esplicite, ma Mitchell le integra molto bene rispetto ai percorsi personali dei personaggi, ed alleggerisce il tutto con una buona dose di dolcezza, sentimento ed ironia. Probabilmente il maggior pregio del finale è il fatto di essere lieto, "normale", etico ma senza retoriche moraliste o pseudo radical-intellettuali, anche se forse troppo colorato ed allusivo in termini di pride.

Bella la fotografia, strepitosa la colonna sonora.

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Wednesday 21 November 2007

Elettra

Andare a teatro è prima di tutto un evento sociale - il rituale comprende la vestizione (questa volta saltata in tronco, eccetto per l'accoppiata cappotto-sciarpa), lo spostamento composto per giungere al teatro, la svestizione al guardaroba, e il soggiorno anticipatorio nel foyer in attesa di raggiungere i propri posti (anche questo saltato, e non recuperato in quanto l'atto era unico); a maggior ragione se lo spettacolo in cartellone è un classico tra i classici come l'Elettra di Sofocle.

Scenografia interessante, con due triangoli pietrosi sovrapposti sul pavimento, e un'apertura al centro - essenziale e fondamentalmente efficace. La scena era quasi quella di un'eruzione vulcanica. Inizio superbo, drammatico e misurato (annuncio dato dal messo/servitore nella migliore tradizione del teatro greco), tuttavia già le prime battute di Oreste (Max Malatesta) ed il primo monologo di Elettra (Lina Sastri) hanno fatto capire che il limite principale dello spettacolo era la qualità della recitazione: fiumi di parole accavallate l'una sull'altra, senza che la dizione permettesse una più rigorosa scansione dei tempi, né rendesse agevole la comprensione delle battute pronunciate sottovoce. Sotto questo punto di vista l'attrice migliore è stata sicuramente Clitemnestra (Leda Negroni), penalizzata però da un costume medievaleggiante e dall'assassina uscita dal foro centrale nel pavimento - ingresso alla reggia degli Atridi, che a questo punto ha assunto le proporzioni anticipate qualche mese fa dalla Centanni al seminario di iconologia: l'uomo senza legge torna ad essere un bruto, che vive in caverne, privo di humanitas e di architettura.
Degenerazione grottesca nella seconda metà: la "morte" di Oreste durante la gara di quadrighe ai giochi pitici è descritta con toni da Gazzetta dello Sport/Processo di Biscardi, il riconoscimento di Oreste sembra estrapolato da Beautiful (con un infelicissima traduzione del testo greco ed ancora peggiore recitazione nel passaggio topico: Oreste è vivo come sono vivo io!). La degenerazione finale è totale, con una superflua entrata/ritorno dai campi di Egisto, ucciso in diretta (trascinato da sotto dentro il buco) come i cattivi dei film d'azione anni ottanta (quanto era stata più elegante l'eliminazione di Clitemnestra, interamente dietro le quinte), non senza che Elettra lo avesse allietato con un assurdo balletto svolto maneggiando una di quelle sfere che si illuminano colpendole. Apoteosi del trash coronata dalla spasmodica "morte di gioia" di Elettra.

Visita alla collezione Peggy Guggenheim

Dopo ben tre anni ho adempito ad uno degli obblighi culturali ignominiosamente ignorati da quando mi sono stabilito in laguna: la visita della collezione Peggy Guggenheim.
Al di là del fatto che già l'ingresso a Cà Venier dei Leoni sia di per sé un'esperienza (specialmente arrivandoci dal ponte votivo della Salute), ho trovato meravigliosi e bizantini echi di Pikionis nel giardino delle sculture, ed in generale ho apprezzato ogni parte dell'edificio, non ultima la terrazza sul Canal Grande.
Il tour attraverso l'esposizione stabile è stata una serie di conferme e nuove scoperte: Picasso, Kandinskij, Chagall, Mirò, Mondrian, Klee, Braque, De Chirico, Sironi e Carrà; i miei amati surrealisti Duchamp e Magritte, cui ora dovrò aggiungere la nuova scoperta Max Ernst, sorta di novello Füssli nonché secondo marito di Peggy Guggenheim, e Victor Brauner (Květa Pacovská credo gli debba molto). Tra le scoperte devo aggiungere il Boccioni pittore, e qualche raro momento particolarmente ispirato di Pollock, Morris Hirschfield e Willem de Kooning, che però non posso dire di aver inserito direttamente nell'olimpo dei miei preferiti. Un punto interrogativo (in senso positivo) su Jean Arp (collages e gamma cromatica terrosa) e Francis Picabia.
Tra le conferme ci sono naturalmente anche le repulsioni: Dalì, i futuristi (Balla e compagnia, ad eccezione per il sopra citato Boccioni pittore), e Pollock, che per quanto mi abbia affascinato cromaticamente con un quadro, come detto prima, rimane un imbrattatele.

Utile la piccola conferenza tenuta in giardino dalla guida per permetterci di collocare storicamente Peggy e la sua collezione; assolutamente inutile invece la mostra Rosso. La forma instabile dedicata allo scultore impressionista Medardo Rosso, che aveva la cattiva abitudine di fotografare le sue brutte opere, rifotografare le fotografie per poi ritagliarle e fotografarle nuovamente.