Sunday 13 January 2008

Harry Potter e i doni della morte

Non credo di aver mai atteso un libro in modo così spasmodico: il settimo libro, conclusivo, l'ultimo della saga che mi ha accompagnato nell'uscita dall'infanzia, attraverso l'adolescenza, fino alla maturità. Non sono ossessionato da Harry Potter, né lo sono mai stato; tuttavia la lettura è stata la più piacevole, trepidante ed emozionante degli ultimi anni, paragonabile probabilmente solo a qualche Harry Potter precedente o a qualche Správná Pětka, a un Vinnetou o a un qualsiasi libro maggiore di Foglar: sono ritornato ai tempi in cui divoravo libri da 700 pagine in meno di due giorni.

Harry Potter e i doni della morte è un libro magistrale, e non solo come degno coronamento di una serie di per sé ottima: l'autrice sembra aver fatto tesoro delle esperienze accumulate con i volumi precedenti, e ci offre un Harry maturato, in tutta la sua fragilità ed i suoi dubbi: non è più il ragazzino ribelle ed insofferente in cui si era trasformato nei libri centrali, lo stesso rapporto con i suoi amici è più profondo, per quanto più profonde siano le ferite che si infliggono con le incomprensioni reciproche. Nel terrore dell'ascesa di Voldemort, nel disorientamento dei luoghi sempre nuovi in cui si dipana la vicenda dell'ultimo atto i tasselli iniziano ad andare definitivamente al loro posto, e con la medesima emozionante eleganza storia e macrostoria compiono ognuna il loro arco. In un finale carico di energia, con la scuola di Hogwarts che in un caotico fermento mette in atto la ribellione contro il signore oscuro, con tutti i risvolti anche tragici che una tale battaglia comporta, si concretizza l'ultimo colpo di scena che, buttando all'aria tutte le carte, le rimette al loro posto secondo un disegno analogo al precedente, eppure più completo.

E per quanti dubbi sulle sue potenziali versioni alternative possa lasciare il finale più atteso della storia dell'editoria, credo che J. K. Rowling abbia intuito la inequivocabile ed invincibile potenza dell'eucatastrofe teorizzata da Tolkien, che riporta il racconto alla dimensione della fiaba senza per questo offuscarne il realismo.

*****-

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