Il tema dell'antiutopia, per quanto usato e
abusato in particolar modo nella cinematografia recente, conserva ancora potere
suggestionante. Se quindi i risvolti più direttamente legati al voyerismo e
alla violenza latenti nella democrazia mediatica e consumista si rivelano
piuttosto scontati, il fascino del film e quindi con ogni probabilità anche del
ciclo di romanzi da cui esso è tratto, sta nel suo essere racconto cupo ma
speranzoso, e nella persuasiva coerenza del mondo descritto. La parola
"tributo" riferita alle persone che prenderanno parte alla tornata di
giochi evoca tirannide sanguinaria; i Hunger Games numerati per edizione
sembrano una sorta di cruenta olimpiade incrociata con i giochi del circo, dove
l'unica regola è quella che conduce ogni persona scesa nell'arena al diventare
massacratore; il tutto sotto la facciata di un mondo finalmente pacifico e
pacificato.
Emblematica per la riflessione sulla violenza è
la fine dell'ultimo concorrente rimasto oltre ai due protagonisti: ormai non sa
fare altro che uccidere, e contempla come unica alternativa quella di venire ucciso.
Ma va a finire che la sua uccisione, anziché atto violento, diventa gesto di
pietà: scivolato a terra dal luogo di riparo e finito tra belve geneticamente
modificate, personificazioni della violenza assassina che di animale non hanno
più nulla, viene letteralmente sbranato ancora vivo tra urla atroci, sotto
l'occhio vigile delle telecamere che trasmettono ogni cosa in diretta tv. La
morte per mano dei superstiti a quel punto è una grata liberazione dalla
sofferenza.
Il finale è ovviamente aperto, che più aperto
non si può: terreno pronto per nuovi episodi di un fenomeno letterario e
cinematografico che possa insidiare tra il pubblico (eternamente) adolescente
il trono che fu di Harry Potter e di Twilight.
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