Rilettura d'obbligo per evitare che la visione
del primo episodio dell'adattamento cinematografico si impadronisca della mia
immaginazione, e poter così conservare le immagini della mia fantasia accanto a
quelle che mi saranno proposte da Peter Jackson.
E a più di otto anni di distanza dalla prima (e
ultima) rilettura per la tesina di maturità, e a circa venti dalla scoperta
della storia di Bilbo, ascoltata allora con impaziente attenzione e
trepidazione sul divano rosso di Laggio, il libro rimane ancora stupendo.
Non è solamente bello come racconto: è ben
scritto, ha un'alta qualità letteraria. E pur essendo sostanzialmente una fiaba
per bambini, è stratificato nel modo che solo l'universo tolkieniano permette,
e va ancora oltre, attingendo al patrimonio di saggezza custodito dai racconti
di ogni tempo: lampante esempio è il tema del potere accecante - e in ultima
analisi maligno - esercitato dal tesoro.
E la ricchezza dello Hobbit è riflesso della
ricchezza interiore di Tolkien, quieto professore di Oxford, abitante di
un'Inghilterra lontana dai riflettori, profondo conoscitore di lingue e culture
scomparse quali quella norrena, quella finnica o quella antico e medio-inglese,
capace di stendere testi dagli accenti profetici veterotestamentari, e di
evocare luoghi epici che non sono mai fughe dalla realtà ma veri e propri
paesaggi dell'anima, cristallizzazioni delle situazioni esistenziali in cui
ognuno di noi prima o poi si trova.
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